...e i due si persero in una folle danza che aveva il sapore di un sogno in quella magica città che parlava ancora di una Rivoluzione lontana anni luce
venerdì 30 novembre 2018
giovedì 29 novembre 2018
Quella Roma
Quella Roma in bianco&nero fermata da una semplice Kodak Istamatic con un rullino da 24 pose, mi guarda da questa foto. Si tratta della prima domenica di austerity quando, per ovviare alla crisi petrolifera, lo Stato decise che tutti gli italiani (tranne rare eccezioni) non potevano usare la macchina per muoversi.
Per rendere la giornata meno penosa ed immaginando che l'italica pigrizia avrebbe trionfato su milioni di famiglie, si inventarono un contenitore televisivo: Domenica In che, seppur divisa in vari segmenti, iniziava alle 14 per terminare poco prima del telegiornale (che ancora non si chiamava TG).
venerdì 23 novembre 2018
martedì 20 novembre 2018
Quante vite ci vorrebbero per terminare quello che dobbiamo fare? Una sola, certo non basta. La mia paura è proprio questa: arrivare al capolinea di questa mia esistenza, lasciando incompiuta una parte di cose da fare.
E' questo il senso della vita? Rendersi conto del fatto che si poteva e si doveva essere differenti con se stessi e con gli altri? Ed arrivare a quell'ultimo angoscioso respiro pensando che tutto è incompiuto e non c'è più tempo?
Inutile ragionarci sopra quando tutti, inesorabilmente, conosceremo la risposta. Affannarsi, arrovellarsi, scervellarsi a cosa serve? Spesso dimentichi del nostro definitivo destino, sovrapponiamo meschinità e materialità al nostro vivere quotidiano.
Sereno è colui che non si rende conto. Colui che è privo degli strumenti di una appropriata lettura della vita. A colui che ignora.
Il valore della nostra esistenza, però, sarebbe vuoto becero ed insulso senza queste domande.
Viviamo in un contesto che, seppur molto lontano dalle nostre origini e dai valori che man mano si vanno dimenticando, non è dissimile da quello che è denominatore comune di tutte le esistenze.
Poco importano le differenze sociali, geografiche, religiose.
La vita è unica anche se i valori evidenti e superflui possono essere variabili tra loro.
A volte, ci fossilizziamo su dei contesti materiali o di finta filosofia che ci fanno smarrire il vero senso della vita, l'obbiettivo finale.
Questo è il più grave errore.
La confusione che regna all'interno di finte profonde valutazioni che null'altro sono che il primo strato del nostro materialismo, mascherato da filosofie vuoto a perdere.
L'esistenza, l'essere, l'ego, l'anima sono ben altra cosa.
Valori inestinguibili ed intoccabili che vagano condotti da una impalpabile ma pur sempre presenta forza invisibile. E la vita è la manifestazione materiale di questa energia che non si spegne.
Collezionando analisi, intuiti, storie e quant'altro, è facile osservare che tutte le religioni, tutte le leggende, tutto il passato remoto dell'umanità fanno capo ad una unica origine. Possono cambiare nomi, epoche, colorazioni, metodi di analisi e filologie ma il contenuto riporta alla stessa matrice.
L'origine è comune ed univoca.
L'esistenza terrena, quale sia stata la sua origine comunque riconduce a quella energia creatrice da dove poi ritornerà alla fine della terrena esistenza.
Noi ci perdiamo a dare valutazioni sul come e sul perchè, senza renderci conto che queste risposte le conosciamo già ma non possiamo capirle ne ricordarle fin tanto resteremo in questa dimensione. L'origine è l'amore e l'amore è forza. La forza è energia e l'energia è la vita.
Poco interessa se questa sia materializzata sulla terra o su di un altro pianeta di un qualsiasi sistema solare. E' solo una manifestazione materiale di quell'essenza dalla quale tutti noi proveniamo e ritorniamo attraverso un giogo dimensionale che non capiamo.
Le manifestazioni ultraterrene a volte, fan si che rientriamo nella nostra vera dimensione anche se questo è raro e di difficile interpretazione, essendo noi talmente condizionati dalla materia in modo pregiudizievole per cui dobbiamo necessariamente catalogare, inventariare, capire. Il tempo che scorre non rappresenta nulla. Pensiamo sempre di avere ancora spazio per i nostri egoismi, per la nostra esistenza terrena.
E' proprio questa falsa illusione che condiziona le nostre azioni, sempre improntate all'insegna della spasmodica ricerca della materia.
Così facendo ci allontaniamo progressivamente dalla nostra origine, condizionando negativamente la forza che c'è in noi. Ognuno, annovera nel bene e nel male, luce e tenebra:
Possiamo essere arbitri del nostro destino avendo l'opzione di esercitare la scelta della nostre azioni. Eppure, non ce ne rendiamo conto.
L'essere partecipi della cosa, significherebbe assumersi delle responsabilità comportamentali che ci metterebbero in conflitto con i nostri egoismi.
Il nostro mondo materiale ne sarebbe condizionato.
Eppure, responsabilizzarsi non significherebbe abbracciare una vita ascetica composta di soli sacrifici ma solo ricondurrebbe il nostro bene ed il nostro amore verso il prossimo.
Ma questa paura, questa rinuncia a riversare solo a noi stessi questo sentimento ci sconfigge.
E così siamo egoisti e ci creiamo insulse giustificazioni per motivare la nostra scelta di non condividere quella nostra energia con gli altri.
martedì 13 novembre 2018
C’era una volta,
tanto tempo fa quando nel cielo si vedevano le stelle ed i colori erano brillanti, una isola sperduta tra le nebbie che era diventata la base per una moltitudine di persone che, seguendo una magia, si erano ritrovate a sentire le onde del mare infrangersi sugli scogli.
Era un tempo felice, fatto di curiosità e confronti, dove ognuno aveva rispetto per gli altri e dove tutti si scambiavano emozioni –spesso comuni- meravigliandosi di aver trovato un approdo sicuro dove poter rimanere a contemplare il firmamento.
Come in tutte le favole però, le ombre nere erano in agguato gelose del fatto che la luce serena che emanava questa isola, potesse rispendere così genuinamente.
Allora le ombre iniettarono un virus che in modo anonimo, iniziò a contagiare la comunità senza che questa ne fosse partecipe.
Nacquero i protagonismi, i clan, le gelosie, le invidie, le antipatie. Tutto quanto di becero poteva esserci nell’animo umano, si sparse a cerchio contagiando –chi più e chi meno- i felici abitanti di quel posto meraviglioso.
L’isola felice non era più tale. Le divisioni avevano preso il sopravvento sulla genuinità della prima ora e si confrontavano ferocemente solo come può avvenire dentro una arena.
Subentrò la smania del potere e della menzogna che contagiò ogni cosa, lasciando interdetti ed istupiditi coloro che erano restati, per loro fortuna, minimamente toccati dal contagio.
La saldezza del gruppo venne meno fino al punto di sfaldarsi quasi completamente.
Vennero creati villaggi, ognuno dei quali aveva una sua caratteristica che lo distingueva da tutti gli altri. Vennero nominati capi e vice capi, guardiani e servitù.
Ma era regola precisa, a quel punto, andare a vivere in uno di questi villaggi pena l’emarginazione dal gruppo e, forse, dall’isola.
L’isola venne a sottostare anche a colui che ne era il padrone e che, fino a quel momento, non si era occupato di quelli che nel frattempo l’avevano abitata. Fissò delle regole e disse a tutti i capi che si doveva parlare tutti la stessa lingua e che non sarebbero state ammesse deroghe.
La, dove fino a quel tempo, c’era stata l’abitudine di potersi esprimere liberamente, all’improvviso questo diritto veniva cancellato e venivano cancellate tutte le memorie storiche che avevano prodotto fino a quel tempo gli abitanti.
Si apriva un nuovo capitolo. Si fissavano dei paletti. Si escludeva la possibilità di sognare ma anche di restare ancorati a quel tempo in cui ci si trovò, per caso, a vivere nella stessa casa.
Gli abitanti videro molti prendere la strada del mare con il solo scopo di fuggire da un posto che non era più quello che si pensava che fosse e che dovesse essere e, coloro che rimasero, si presero la briga di tollerare il nuovo corso: tutto, purchè fosse loro concesso di restare e di litigare tra clan rivali che era divenuta, nel frattempo, l’unica cosa che li univa.
Si erano smarriti i concetti genuini e sinceri. Si era smarrito il motivo per il quale ci si era ritrovati su quel lembo di terra. Tutto procedeva secondo canoni precostruiti dove il solo valore era quello di continuare a confrontarsi.
Sull’isola si costruirono centri di bellezza ed altre cose che occorrevano per continuare a motivare la permanenza su di un luogo che, ormai, mostrava evidenti segni di cedimento e noia.
Queste persone non si rendevano conto che, senza ricordare il significato del ‘perché’, si era smessi di avere un denominatore comune.
Erano persone sole che cercavo di imprimere alla propria solitudine, un moto di compagnia attraverso anche il litigio ed il confronto.
Ma dell’isola spensierata non v’era restata traccia. Ora appariva come una caotica metropoli dove non esistevano più i valori di un tempo e dove la gente fuggiva da qualsiasi contatto umano. Dove la fretta e la concitazione avevano la meglio sulla contemplazione e dove, bisognava necessariamente entrare in conflitto con qualcuno per essere notato.
L’isola, così lontana da tutto, sembrò avvicinarsi sempre di più a quel continente che i naufraghi di un tempo avevano abbandonato per seguire una stella. Quella stella che si stava sempre di più allontanando da loro per seguire il suo cammino che la stava portando fuori dalla loro vista e dalla loro filosofia di vita.
Ma si sa, questa è solo una favola e nulla più.
sabato 10 novembre 2018
Io sono io. Una persona con tanti difetti ed arroganze insospettate. Egoista nonostante tutto fino in fondo.
Mi piace trovare traguardi da raggiungere dopo lunghe peregrinazioni fatte di fantasie e sogni mai scoperti a nudo.
Posso essere un poeta, un giusto, un barbaro, un inetto.
Mi rendo conto della complessità della mia persona e cerco di stare dentro i miei limiti che ho imparato a conoscere con il passare del tempo.
Amo i sogni.
So bene che la realtà è un'altra ma non inficia nel mio acuto desiderio di 'pindarizzare' i miei voli acrobatici che si innalzano alti pur sapendo che le mie ali non reggeranno lo sforzo prodotto. Ma in questi brevi istanti assaporo quanto non è concesso agli altri di assaggiare. Vedo cose che altri neppure riescono ad immaginare.
Vivo.
E non è poco.
giovedì 8 novembre 2018
Esploravo.
Vivevo.
Respiravo.
I passi rimbombavano nella mia mente in maniera impietosa. "Dove sto andando?" mi chiesi mentalmente. Ma non era una domanda bensì un urlo che lacerava la mia anima.
L'abitacolo della mia auto mi accolse delicatamente. Un profumo di cuoio fresco misto a puzza di fumo, calmò la mia agitazione.
Sapevo che dovevo andarmene da quel posto. In qualsiasi modo, pensai.
I led verdi del cruscotto si accesero mentre giravo la chiave di accensione e un sordo rumore di pistoni nuovi confortò il mio desiderio. Me ne sarei andato presto pensai. Il tempo di ingranare la prima e girare lo sterzo per fare manovra, svincolando dalla teoria di auto parcheggiate e disposte in linea orizzontale. Il buio faceva riflettere le luci soffuse del contagiri e del tachimetro. Accesi i fari che illuminarono la via scura.
Lo stereo riversò una delicata musica old times probabilmente tratta da qualche musical americano degli anni '50, infondendomi un nanogrammo di tranquillità. Chiusi le palpebre gustando il piacere di un sipario che si chiudeva e lasciava fuori tutto il resto.
Emisi un profondo respiro.
Ero vivo.
Magari, l'incubo stava esaurendo la sua forza distruttrice. Forse, era tutto un sogno. Uno di quei sogni dai quali, quando ti svegli, sei contento di sapere tali.
Mille puntini colorati animavano l'interno delle mie orbite oculari, facendomi perdere nel vano inseguimento del loro movimento. Dovevo riaprire gli occhi prima di perdere la cognizione dello spazio temporale che mi circondava.
Ero vivo.
Magari, l'incubo stava esaurendo la sua forza distruttrice. Forse, era tutto un sogno. Uno di quei sogni dai quali, quando ti svegli, sei contento di sapere tali.
Mille puntini colorati animavano l'interno delle mie orbite oculari, facendomi perdere nel vano inseguimento del loro movimento. Dovevo riaprire gli occhi prima di perdere la cognizione dello spazio temporale che mi circondava.
Luci color ambra. Strumentazione hi-tech. Musica di sottofondo. Strada nera.
Tutto era come l'avevo lasciato solo pochi secondi prima di chiudere gli occhi.
Tutto era come l'avevo lasciato solo pochi secondi prima di chiudere gli occhi.
Era tutto vero. Immutato. Immutabile.
martedì 6 novembre 2018
Un pacchetto di Marlboro, dei cerini, un bicchiere vuoto, cento lire, un juke box, un portafogli, una busta di nylon, una musica, una penna, un foglio di carta, un tavolo verde, delle luci, pochi soldi, un paio di jeans prestati insieme ad una maglietta celeste, un cucchiaino, un flipper, un posacenere.
Di fuori: una piazza, un monumento, una penna finita, degli archi, delle persone, le solite preoccupazioni, i soliti umori, i soliti vecchi decrepiti muri che fanno da cornice, in cesso, un telefono, dei gettoni, delle macchinette mangiasoldi, Charlotte, Marylin, Marlene, io, tu, il nostro amore.
lunedì 5 novembre 2018
Tempo smarrito.
L'ho ritrovato questa mattina, volendomi far trasportare come quelle foglie appassite, per arrivare a volare libero da tutte le ansie della
nostra amata società.
Non è tristezza ma poesia.
Mi affaccio alla finestra. Ma non c'è vento. Non sono una foglia.
La caccia è finita da decenni.
Mi ritrovo qui, davanti ad un monitor ad osservare i miei ricordi.
Cose preziose che si incastonano su personali elucubrazioni.
Tempo speso nel giocare il tempo.
Onde che diseguali, si infrangono a riva.
Un alito di vento caldo che passa e va.
Un raggio che sfonda il nero di un bosco ombroso conquistando il suo spazio.
Semplici esistenze che mai esisteranno.
Non c'è malizia.
Non c'è arroganza.
Non ci sono mire sepolte da ipocrisie.
Avverto poesia, emozioni, vibrazioni, sensazioni che vanno e vengono.
Armonie che permeano un incontro casuale.
Un nuovo modo di comunicare.
Un battito di ciglia.
Un bacio gettato alla luna.
Have a Nice day.
La vita cambia aspetto.
Tutto pare essersi trasformato in un'asettica nausea che perseguita ogni istante del giorno che si vorrebbe mai vivere. Solo il dormire può apparire una via di fuga ma neppure.
I sogni si intercalano tra loro in una sciarada di continua nostalgia pilotata dal cuore. Immagini che si ribellano della realtà oggettiva e che vorrebbero avere il sopravvento sul futuro e, soprattutto, nel passato.
domenica 4 novembre 2018
1978
"Madonna, che caldo!" esclamai disteso sopra di un letto rovente. Un manifesto pubblicizza una corrida del famosa El Cordobes a "tarde a las 5 en punto con 6 hermosos y bravos toros 6". Chissà che fine ha fatto Francisco Franco, sepolto sotto terra piena di sangue dei compagni uccisi, anarchici e comunisti. Chissà se Stalin nel '36 avesse mandato fucili e uomini, avrebbe vinto la Mussolini&Hitler football club. Pensieri stravaganti che mi lasciano la bocca insapore. Voglia di melanzane sottolio fatte in casa. Voglia di rivedere carteggi privati e leggere poesie. Già, visto che ho parlato di Spagna, doveroso omaggio a Federico Garcia. "La casa di Bernarda Alba" scenografata per il prof. Vergoz titolare della cattedra all'Accademia di Belle Arti di Roma. Tempo passato. Voglia di Tony Esposito e di Rosso Napoletano. Voglia di Napoli, i vicoli, il Maschio Angioino, via Caracciolo e Gianni per farmi offrire quella tazzulella 'e cafè, promessami a Portogruaro. Girare tra scugnizzi e camorra privo di Roberto de Simone. Tammurriata. Capito precipitosamente da Rosati a Piazza del Popolo. La voglia di scrivere è poca. E' possibile forzare la mente? Pare di si. Una marcialonga...mare blu con spiaggia bianca. Siamo a Rio attorno al Pan de Azucar. La mente è libera da ostruzionismo. Anarchia. Tutto il potere all'immaginazione, quindi.
Ma il caldo afoso mi opprime. Perchè? Eppure penso di non poter continuare il discorso. Voglio smetterla, ma come una calamita il mio pensiero precipita sopra una penna stravolta. Sudo. Sforzo mentale o caldo? Probabilmente tutti e due. 007 missione goldfinger...Jan Fleming mi attende stasera conteso ad un film di fantascienza. Giochi senza frontiere è bloccato da un televisore che non funziona più. Come me, come tutti.
Come un assordante rumore di foglie stese al vento. Come un selciato di vecchi sampietrini. Come il fusto di un albero secco, in mezzo alla campagna.
Odore di caffè si spande dalla cucina. Sono le 9 e 40. Mi sono svegliato da poco. Renato Zero gorgheggia alla radio una strana storia omosex. Strano ragazzo. La gente gira attorno a me. La polizia ha perso le tracce, tanto per cambiare.
"Madonna, che caldo!" esclamai disteso sopra di un letto rovente. Un manifesto pubblicizza una corrida del famosa El Cordobes a "tarde a las 5 en punto con 6 hermosos y bravos toros 6". Chissà che fine ha fatto Francisco Franco, sepolto sotto terra piena di sangue dei compagni uccisi, anarchici e comunisti. Chissà se Stalin nel '36 avesse mandato fucili e uomini, avrebbe vinto la Mussolini&Hitler football club. Pensieri stravaganti che mi lasciano la bocca insapore. Voglia di melanzane sottolio fatte in casa. Voglia di rivedere carteggi privati e leggere poesie. Già, visto che ho parlato di Spagna, doveroso omaggio a Federico Garcia. "La casa di Bernarda Alba" scenografata per il prof. Vergoz titolare della cattedra all'Accademia di Belle Arti di Roma. Tempo passato. Voglia di Tony Esposito e di Rosso Napoletano. Voglia di Napoli, i vicoli, il Maschio Angioino, via Caracciolo e Gianni per farmi offrire quella tazzulella 'e cafè, promessami a Portogruaro. Girare tra scugnizzi e camorra privo di Roberto de Simone. Tammurriata. Capito precipitosamente da Rosati a Piazza del Popolo. La voglia di scrivere è poca. E' possibile forzare la mente? Pare di si. Una marcialonga...mare blu con spiaggia bianca. Siamo a Rio attorno al Pan de Azucar. La mente è libera da ostruzionismo. Anarchia. Tutto il potere all'immaginazione, quindi.
Ma il caldo afoso mi opprime. Perchè? Eppure penso di non poter continuare il discorso. Voglio smetterla, ma come una calamita il mio pensiero precipita sopra una penna stravolta. Sudo. Sforzo mentale o caldo? Probabilmente tutti e due. 007 missione goldfinger...Jan Fleming mi attende stasera conteso ad un film di fantascienza. Giochi senza frontiere è bloccato da un televisore che non funziona più. Come me, come tutti.
Come un assordante rumore di foglie stese al vento. Come un selciato di vecchi sampietrini. Come il fusto di un albero secco, in mezzo alla campagna.
Odore di caffè si spande dalla cucina. Sono le 9 e 40. Mi sono svegliato da poco. Renato Zero gorgheggia alla radio una strana storia omosex. Strano ragazzo. La gente gira attorno a me. La polizia ha perso le tracce, tanto per cambiare.
Un ufficio vuoto. Una radio. Una Marlboro ed un posacenere. Una macchina da scrivere. Dietro la finestra, la libertà. Rumori di carri, auto, trattori, autoarticolati. La penna scorre sul foglio come un'automobile impazzita. Farfalla viola, rossa, blu, sopra un mare d'erba. Molecole sospese in aria da una reazione chimica. Wow! Arrivano i meglio. Meglio sarebbe spegnere la radio. Forse bomba N. Bari a porte chiuse. Attaccapanni in lutto, oggi. Davanti, un missile squarciato da cui aleggia fuori la nostra repubblica...o la loro? Stasera, film per risvegliare la mia attenzione ed i miei interessi su curve e volumi.
Pazzo! Figure infantili sopra la mia memoria raffreddata. Al diavolo. Dolore, solenne. Unitario...no, ma serve. Ma a chi serve? Topolino. Intruglio radiofonico: voce e sax di Robert Fix. Il telefono del capo sezione...al diavolo pure lui. Naso congestionato e gengive arrossate. Tra due ore, fuori dall'ufficio. Cena e film delle 20,30. Letto. Domani è già qui. Maria Maddalena. Ricordo Radio Antenna Musica e Venditti, Già, più di un anno fa. Anche Jesus Christ Superstar e Carl Anderson in Giuda. Poi, piazza di Spagna. Tante, troppe cose. Ma continuo...forse un giorno, chissà. Tra poco il censore sarà qui. Di nuovo la morte dei transistor e la fine provvisoria dell'inchiostro. Amore dove sei? Io ti salverò. Come un capriolo ferito e braccato. Esami a non finire. Ma dov'è la continuità del discorso? Al diavolo! Eh, Tony che fine hai fatto? Meriteresti un capitolo a parte. Ricordi? Sulle sponde del Tevere a fumare prima di andare al cine club a vedere mostri fantascientifici. E all'uscita fare sfregi sulla strada. Samarkanda. No, solo due fricchettoni romani a spasso a fare braccialetti prima di andare a Ponte Milvio a vendere carciofi. Quante situazioni, quante cose...Castel Sant'Angelo, poi via Ottaviano, piazzale Clodio. E giù lacrimogeni e parole d'ordine...P38. Batterie quasi scariche. Tra poco me ne vado. E poi, quei De Andrè contesi ai Gordon. Una Guerra di Piero un pò personalizzata come la grande pendola che c'era all'ingresso della scuola elementare. Vernice rossa spray. Collette per i compagni arrestati. Anarchia. Patchouli Penang. Micropunti verdi a piazza Navona. Windupen su goccia a Campo. Con Andrea ed il suo pakistano bianco ed i jeans troppo stretti. Levis o Wranglers. Orecchino al lobo sinistro e smalto sulle unghie. Rosso bordò. "Elementi di rottura" si chiamavano. Tra una illusione di lavoro attuale con possibilità di capelli lunghi e jeans controinformativi. Forse all'Università o in un giornale. Ma poi lei ed il bambino. Mixage...buco. Ritmo sudamericano. Marimbe, congas, bonghi, pappagalli coloratissimi nella jungla boliviana. Ricordi, Ernesto? Mitra, zaini e fede per una seconda Cuba al grido di Bolivia Libre! Una curva Sud impazzita...alè Roma. Santa Maria a Trastevere. Guerra di secessione. Saratoga 1770. Problemi di Ladispoli alle cinque di mattina. Musica alla Maigret. Parigi da tristezza. Realtà dei Champs Eliseès. Quartiere Latino. Ritmo soul, funky. Manca il solito VAT 69 ed un salotto con tavolo di cristallo. Ok, Joe! Lasciami lavorare intorno ad una trama di tristezza. Poco senza ali. Casomai rinnegato borghese. Ciao dolce militanza, vibranti sensazioni di lotta. Vi ho lasciate tempo fa..forse a Queimada. Orgoglio...opportunismo. Non so ma è. Vado con un'altra cicca per 3 o 4 minuti, scorgendo la carta geografica dell'Italia. Pero...lungo il mio viaggio. Mica male! Domani mi infilo il maglione.
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| 1977 Portogruaro IIIa Bgt Missili Aquileia |
Un mosaico...le sue tessere sono le mie esperienze. Un marmo e l'artista. Il corpo umano potrebbe essere bello ed invece è rovinato da grettezze, preconcetti che formano un atavico bagaglio socioculturale. Forse tutto è poesia.
Mi guardo le mani bianche. Sono pronto a ritornare dentro il carosello e la cena. Tra una telefonata ed il telegiornale del primo canale...il giradischi suona come sempre ed io pensavo alla differentra tra un Goya ed un Van Gogh. Sicuramente mi sarei addormentato in una serie di constatazioni a livello ancestrale.
Mi guardo le mani bianche. Sono pronto a ritornare dentro il carosello e la cena. Tra una telefonata ed il telegiornale del primo canale...il giradischi suona come sempre ed io pensavo alla differentra tra un Goya ed un Van Gogh. Sicuramente mi sarei addormentato in una serie di constatazioni a livello ancestrale.
Domande con la solita risposta personale e gratuita. Meglio dire supposizione. Un uomo ed una donna. La penna revosa fruga nelle mia memoria, giunge a Mia Martina ed a un tragico Minuetto. Ladispoli. Quella prima notte. Meravigliosa essenza di te. Sopra ad una altalena in mezzo al verde. Vestito viola di Positano. Ancora Amore. Tutto è poesia. Ma Rimabud aveva forse torto. Riminiscenze di un FT Marinetti. Futurismo da supermercato fino ad avere le lacrime agli occhi. Fin quando potrò andare avanti? I feel love. Stelle. Il freddo si fa tagliente, avviva fino a Love hangover ritmando. Discoteca ad Igls. VIP a Roma. Diapositive. Ivan Graziani. Alfa 2000 e Svizzera. Lilly o Violetta? Poi è uscita fuori Romina..però con Hans... E' ora di finirla. Ancora un'altra Marlboro pensando a giovedì.
Uno specchio davanti a me.
Sdraiato sul letto. Località di mare per masse sottosviluppate che si affittano due camere e cucina cin bagno per tre o quattrocentomila lire, credendo che sia "vacanza". Masse che non si accorgono di fare solamente un movimento attraverso lo spazio, cioè trasportarsi dalla casa di città a quella penosamente affittata al mare. Con tutte le preoccupazioni cretine ed alienanti del fare la spesa, di cucinare, di spicciare casa, di non scoprire nulla di nuovo.
Una Mina perversa attraversa tutti i transistor della radio per giungere a me. Di fuori sento sbattere le lenzuola ed i tappeti. La vita inizia un nuovo giorno.
Hans è di là che ride. Guerre stellari è posato sul tavolino dell'ingresso. Voci soffuse giungono a me senza essere distinte. Il suono della radio è più potente. Ho telefonato a Rocco poco fa. So che lunedì o martedì prossimo mi viene a trovare prima di partire per una Londra aspettata chissà da quanto. Big Ben forse...
Annaspo sulla manopola della radiolina fino a giungere a dei Rolling Stones con la vecchia Sadisfaction rovinata dalla voce imbecille di un dj che si crede spiritoso. Aurora si è girata dalla mia parte ma dorme ancora. La porta si apre...pericolo scampato.
Stufo, decido di cambiare emittente. Giungo così a Venditti che mi osserva dalla vetrina parlando di elmetti, Roma e situazioni assurde, come la vita. Autostrada? Chissà. Verona con un Romeo ed una Giulietta ed il prode Mercuzio, potenza di Shakespeare travestito da Carmelo bene. Marco dorme ancora. Voci...si è spezzato un rumore. Musica tipo Rod Steward. Fogli e pensieri sparsi disordinatamente dentro la mia testa. Chissà se Nuova Psicologia riuscirà a risolvere il kafkiano dilemma. Sarà poi vero? Un gatto di peluche bianco e celeste cammina per i salgariani sentieri di Ladispoli, ricordando il fido Janez...però è senza sigarette.
Sento un buco allo stomaco. Confusione.
Sdraiato sul letto. Località di mare per masse sottosviluppate che si affittano due camere e cucina cin bagno per tre o quattrocentomila lire, credendo che sia "vacanza". Masse che non si accorgono di fare solamente un movimento attraverso lo spazio, cioè trasportarsi dalla casa di città a quella penosamente affittata al mare. Con tutte le preoccupazioni cretine ed alienanti del fare la spesa, di cucinare, di spicciare casa, di non scoprire nulla di nuovo.
Una Mina perversa attraversa tutti i transistor della radio per giungere a me. Di fuori sento sbattere le lenzuola ed i tappeti. La vita inizia un nuovo giorno.
Hans è di là che ride. Guerre stellari è posato sul tavolino dell'ingresso. Voci soffuse giungono a me senza essere distinte. Il suono della radio è più potente. Ho telefonato a Rocco poco fa. So che lunedì o martedì prossimo mi viene a trovare prima di partire per una Londra aspettata chissà da quanto. Big Ben forse...
Annaspo sulla manopola della radiolina fino a giungere a dei Rolling Stones con la vecchia Sadisfaction rovinata dalla voce imbecille di un dj che si crede spiritoso. Aurora si è girata dalla mia parte ma dorme ancora. La porta si apre...pericolo scampato.
Stufo, decido di cambiare emittente. Giungo così a Venditti che mi osserva dalla vetrina parlando di elmetti, Roma e situazioni assurde, come la vita. Autostrada? Chissà. Verona con un Romeo ed una Giulietta ed il prode Mercuzio, potenza di Shakespeare travestito da Carmelo bene. Marco dorme ancora. Voci...si è spezzato un rumore. Musica tipo Rod Steward. Fogli e pensieri sparsi disordinatamente dentro la mia testa. Chissà se Nuova Psicologia riuscirà a risolvere il kafkiano dilemma. Sarà poi vero? Un gatto di peluche bianco e celeste cammina per i salgariani sentieri di Ladispoli, ricordando il fido Janez...però è senza sigarette.
Sento un buco allo stomaco. Confusione.
sabato 3 novembre 2018
Vigile, forse.
Curioso senza dubbio.
Il mio sguardo corre verso le basse nuvole che offuscano un sole pallido che non ha alcuna intenzione di uscire in questo novembre così grigio.
Vedo le foglie gialle finire di appassire dentro al mio giardino dove l'insistenza dell'edera sta avendo alla meglio di questo novello Cincinnato per caso che sono diventato.
Nessuna velleità di pollice verde anche se mi piacerebbe godere di una ordinata natura ricca di profumi e colori. Poi, riflettendo, mi dico che la natura non ha che il suo ordine e che non va affatto forzato.
Ma che cazzo di viaggio sto facendo quest'oggi?
Curioso senza dubbio.
Il mio sguardo corre verso le basse nuvole che offuscano un sole pallido che non ha alcuna intenzione di uscire in questo novembre così grigio.
Vedo le foglie gialle finire di appassire dentro al mio giardino dove l'insistenza dell'edera sta avendo alla meglio di questo novello Cincinnato per caso che sono diventato.
Nessuna velleità di pollice verde anche se mi piacerebbe godere di una ordinata natura ricca di profumi e colori. Poi, riflettendo, mi dico che la natura non ha che il suo ordine e che non va affatto forzato.
Ma che cazzo di viaggio sto facendo quest'oggi?
venerdì 2 novembre 2018
![]() |
| il cocomeraro a Via Andrea Doria, al Trionfale (Roma) |
Cartoline di altri tempi.
Di una vita in bianco e nero.
Vado.
Osservo le pagine che scorrono sempre uguali. Foto clonate e poi riciclate e poi clonate ancora che accompagnano messaggi di solitudine che urlano dolori di ogni tipo. Mi perdo in considerazioni vuoto a perdere dove c’è sempre un vuoto e dove a perdere sono sempre io. Ancorato come sono alla non accettazione di un sistema, è facile ripercorrere emozioni virate seppia che sono nell’anima e nella memoria di chi c’era e che a quei tempi, era all’inizio di un percorso di vita.
Poi, per molti si è trasformato in esistenza mentre per altri solo respiro che andava. La tristezza mi pervade dominandomi e non sono più capace di lottare contro questa malinconica sensazione di rimpianti e ricordi che frullano in testa e nel cuore. Non è difficile capire che mi è impossibile seguitare a lanciare bottiglie con messaggi dentro un oceano di disperazione dove tutti esprimono la loro insepolta rabbia ma dove ognuno si tira prudentemente indietro. In fondo – penso- lo faccio anch’io. Quindi rimane solo una valvola di sfogo quando va bene oppure un ricettacolo di chiacchiere avulse che a nulla conducono anche se per alcuni, è fonte di ricerca di compagnia. Senza grande presunzione ammetto di conoscere le persone con le quali mi sono interfacciato e sono in grado di distinguere volti e voci e cuori e anime di ognuno di loro. Non traccio bilanci e neppure sentenze: semplicemente conservo in me valori ed emozioni che mi sono state donate e che io ho prese.
Non è un addio ma uno sfogo che mi sale imperioso. Non ce la faccio ancora più a vedere gente invecchiata che pietosamente non si vuol rendere conto che il tempo se n’è andato senza appello e senza far rumore.
Salgo le scale di un futuro fatto di secondi e frazioni di secondi mentre il cuore pulsa quello che può senza avere alcuna scadenza prefissata.
Si, proprio così. Nessuna scadenza…
Osservo le pagine che scorrono sempre uguali. Foto clonate e poi riciclate e poi clonate ancora che accompagnano messaggi di solitudine che urlano dolori di ogni tipo. Mi perdo in considerazioni vuoto a perdere dove c’è sempre un vuoto e dove a perdere sono sempre io. Ancorato come sono alla non accettazione di un sistema, è facile ripercorrere emozioni virate seppia che sono nell’anima e nella memoria di chi c’era e che a quei tempi, era all’inizio di un percorso di vita.
Poi, per molti si è trasformato in esistenza mentre per altri solo respiro che andava. La tristezza mi pervade dominandomi e non sono più capace di lottare contro questa malinconica sensazione di rimpianti e ricordi che frullano in testa e nel cuore. Non è difficile capire che mi è impossibile seguitare a lanciare bottiglie con messaggi dentro un oceano di disperazione dove tutti esprimono la loro insepolta rabbia ma dove ognuno si tira prudentemente indietro. In fondo – penso- lo faccio anch’io. Quindi rimane solo una valvola di sfogo quando va bene oppure un ricettacolo di chiacchiere avulse che a nulla conducono anche se per alcuni, è fonte di ricerca di compagnia. Senza grande presunzione ammetto di conoscere le persone con le quali mi sono interfacciato e sono in grado di distinguere volti e voci e cuori e anime di ognuno di loro. Non traccio bilanci e neppure sentenze: semplicemente conservo in me valori ed emozioni che mi sono state donate e che io ho prese.
Non è un addio ma uno sfogo che mi sale imperioso. Non ce la faccio ancora più a vedere gente invecchiata che pietosamente non si vuol rendere conto che il tempo se n’è andato senza appello e senza far rumore.
Salgo le scale di un futuro fatto di secondi e frazioni di secondi mentre il cuore pulsa quello che può senza avere alcuna scadenza prefissata.
Si, proprio così. Nessuna scadenza…
Ignoro quando questi pochi scritti saranno letti e da chi. La tristezza ed il dolore di questo momento che sto vivendo, non mi lasciano affatto sereno e penso che, in fondo, sono stato legato visceralmente alla mia famiglia più di quello che avrei mai pensato in tanti anni di vita comune.
Eppure i presupposti non erano lontanamente preventivabili. Al contrario. Probabilmente all’epoca, se si facevano scommesse circa la durata del mio matrimonio, non sarebbe stata cosa tanto indicibile.
Ma quel ragazzotto pieno di illusioni e sogni, ereditati dal ceppo materno senz’altro più fragile e meno concreto di quello del papà, cullava ancora idee di purezza che facevano vedere il mondo ed il futuro come un improbabile caleidoscopio pieno di colori. E si che quel giovane allora militare di leva e con addosso una bronchite da far spavento, su quell’altare vestito di un antiquato abito blu notte, a tutto avrebbe pensato mesi prima fuorché a sposarsi. Neanche da dire che erano nozze riparatrici, avendo combinato apposta il guaio dopo averlo dichiarato prima che accadesse.
Lui, proprio lui che era scappato di casa per incompatibilità con il padre padrone. E che aveva vissuto drammatiche ore ed appassiti giorni, sognando l’autodeterminazione delle scelte che non gli furono mai consentite. E per quella somma di malinconie che divennero motivi, aveva a suo tempo scelto che non avrebbe mai generato, per non avere la possibilità di sbagliare per un amore paterno. Proprio come il di lui padre, aveva fatto in precedenza. Non voleva, quel ragazzo, far soffrire nessuno. Meno che mai chi avrebbe creato.
Ma l’amore rende ciechi e, come sacrificio che si offre a dimostrazione del proprio amore, divenne padre, regalando alla sua futura sposa il frutto della sua devozione.
Troppo giovani. Troppo diversi. Addirittura opposti. Questo è quanto si pensava da ogni parte. Gli amici. I parenti.
Coppia destinata a fallire prima di subito. E con un figlio in arrivo.
Teoricamente, ma anche praticamente, tutti avevano ragione. Ogni elemento si coniugava armonicamente: nessuna esperienza da parte di entrambi. Ancora il servizio militare da assolvere. Un lavoro da trovare in seguito. Una famiglia da mantenere facendo affidamento solo ai rispettivi genitori che vedevano nei loro figli, qualcosa che stava sfuggendo di mano. Aldo e Aurora sarebbero venuti meno alla vita di prima per comporne una loro e con un figlio sulle spalle.
E quello che non pensi possibile, poi si realizza. E il tempo passa veloce. E’ un soffio che sparisce non appena ti sfiora. Sfiora la bellezza, la gioventù, la salute, i sogni.
Si dirà che è un fatto incontrovertibile, che è la vita… che sono cicli che si ripetono.
Si mischiano ricordi che fanno assaporare e rivivere emozioni irreversibili che sono più amare che dolci. La nostalgia si accumula in un pianto mai sfogato che viene relegato a semplice detonatore di dolore. Dolore per chi non c’è più, dolore per ricordi che si sbiadiscono nel tempo e nell’incuria del presente già passato. Dolore per cose che non potranno essere vissute da nessuno e neppure da noi.
Si miscela quell’armonia caotica che si forma con i ricordi di cose passate, di vicende vissute, di paure oramai tanto remote che neppure si pensano più tali.
Troppo angoscioso il futuro che futuro non è. Solo l’illusione di un percorso ancora da fare ma che si conosce fin troppo bene per averlo vissuto di riflesso nella vita di coloro che ci hanno già lasciato.
Esempi di genitori che parevano eterni ma che adesso riposano in un cimitero. E le loro preziose cose, da quelle realmente di valore a quelle che rappresentavano solo per loro un valore, vendute o regalate o buttate via perché non ritenute importanti.
Sapere che piccoli grandi oggetti, che rappresentavano feticci intoccabili saranno un domani considerati semplici impicci o cianfrusaglie da vendere, esemplifica realisticamente la caducità della vita. Ognuno di noi reputa importante, essenziale, utile, o prezioso un oggetto, un bene, una qualsiasi piccola cosa che ai nostri occhi diventa così significativa ma che, una volta morti noi, tornerà ad essere un semplice oggetto che se non conserva quel valore intrinseco riconosciuto universalmente, sarà considerata dai più solo quello che realmente è in modo oggettivo.
E le nostre vite fatte di piccole cose, sono parallele alle stesse: importanti per noi finché in vita; vane per coloro che resteranno dopo di noi.
Forse un fiore, un sorriso amaro, un ricordo, un aneddoto…ma poi la vita seguiterà limitatamente ad un tempo prefissato per coloro che rimarranno mentre per chi, già se n’è andato da questa terrena dimensione, tutto questo sarà solo spazio vuoto.
Si potrebbe aprire la disamina se esiste qualcosa dopo la vita. Per lo meno, vita intesa a come la intendiamo noi: esattamente la vita terrena e materiale. Quella nella quale inconsapevolmente iniziamo a vivere come atto d’amore (o di superficialità) da parte dei nostri genitori. Ma ne varrebbe la pena di perdersi tra i meandri delle ipotesi come già sviluppato da filosofi, teorici di ogni razza e religione e tutti coloro che hanno cercato di porsi delle domande?
Sarebbe perdere tempo. Sarebbe speculare su teorie già esaminate e che sono senza riprova materiale. Resterebbe solo un improbo esercizio senza nessun costrutto.
Tempus fugit!
Eppure i presupposti non erano lontanamente preventivabili. Al contrario. Probabilmente all’epoca, se si facevano scommesse circa la durata del mio matrimonio, non sarebbe stata cosa tanto indicibile.
Ma quel ragazzotto pieno di illusioni e sogni, ereditati dal ceppo materno senz’altro più fragile e meno concreto di quello del papà, cullava ancora idee di purezza che facevano vedere il mondo ed il futuro come un improbabile caleidoscopio pieno di colori. E si che quel giovane allora militare di leva e con addosso una bronchite da far spavento, su quell’altare vestito di un antiquato abito blu notte, a tutto avrebbe pensato mesi prima fuorché a sposarsi. Neanche da dire che erano nozze riparatrici, avendo combinato apposta il guaio dopo averlo dichiarato prima che accadesse.
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| con Rinaldo e Gabriele in Val di Susa durante la fuga da casa (gennaio '72) |
Lui, proprio lui che era scappato di casa per incompatibilità con il padre padrone. E che aveva vissuto drammatiche ore ed appassiti giorni, sognando l’autodeterminazione delle scelte che non gli furono mai consentite. E per quella somma di malinconie che divennero motivi, aveva a suo tempo scelto che non avrebbe mai generato, per non avere la possibilità di sbagliare per un amore paterno. Proprio come il di lui padre, aveva fatto in precedenza. Non voleva, quel ragazzo, far soffrire nessuno. Meno che mai chi avrebbe creato.
Ma l’amore rende ciechi e, come sacrificio che si offre a dimostrazione del proprio amore, divenne padre, regalando alla sua futura sposa il frutto della sua devozione.
Troppo giovani. Troppo diversi. Addirittura opposti. Questo è quanto si pensava da ogni parte. Gli amici. I parenti.
Coppia destinata a fallire prima di subito. E con un figlio in arrivo.
Teoricamente, ma anche praticamente, tutti avevano ragione. Ogni elemento si coniugava armonicamente: nessuna esperienza da parte di entrambi. Ancora il servizio militare da assolvere. Un lavoro da trovare in seguito. Una famiglia da mantenere facendo affidamento solo ai rispettivi genitori che vedevano nei loro figli, qualcosa che stava sfuggendo di mano. Aldo e Aurora sarebbero venuti meno alla vita di prima per comporne una loro e con un figlio sulle spalle.
E quello che non pensi possibile, poi si realizza. E il tempo passa veloce. E’ un soffio che sparisce non appena ti sfiora. Sfiora la bellezza, la gioventù, la salute, i sogni.
Si dirà che è un fatto incontrovertibile, che è la vita… che sono cicli che si ripetono.
Si mischiano ricordi che fanno assaporare e rivivere emozioni irreversibili che sono più amare che dolci. La nostalgia si accumula in un pianto mai sfogato che viene relegato a semplice detonatore di dolore. Dolore per chi non c’è più, dolore per ricordi che si sbiadiscono nel tempo e nell’incuria del presente già passato. Dolore per cose che non potranno essere vissute da nessuno e neppure da noi.
Si miscela quell’armonia caotica che si forma con i ricordi di cose passate, di vicende vissute, di paure oramai tanto remote che neppure si pensano più tali.
Troppo angoscioso il futuro che futuro non è. Solo l’illusione di un percorso ancora da fare ma che si conosce fin troppo bene per averlo vissuto di riflesso nella vita di coloro che ci hanno già lasciato.
Esempi di genitori che parevano eterni ma che adesso riposano in un cimitero. E le loro preziose cose, da quelle realmente di valore a quelle che rappresentavano solo per loro un valore, vendute o regalate o buttate via perché non ritenute importanti.
Sapere che piccoli grandi oggetti, che rappresentavano feticci intoccabili saranno un domani considerati semplici impicci o cianfrusaglie da vendere, esemplifica realisticamente la caducità della vita. Ognuno di noi reputa importante, essenziale, utile, o prezioso un oggetto, un bene, una qualsiasi piccola cosa che ai nostri occhi diventa così significativa ma che, una volta morti noi, tornerà ad essere un semplice oggetto che se non conserva quel valore intrinseco riconosciuto universalmente, sarà considerata dai più solo quello che realmente è in modo oggettivo.
E le nostre vite fatte di piccole cose, sono parallele alle stesse: importanti per noi finché in vita; vane per coloro che resteranno dopo di noi.
Forse un fiore, un sorriso amaro, un ricordo, un aneddoto…ma poi la vita seguiterà limitatamente ad un tempo prefissato per coloro che rimarranno mentre per chi, già se n’è andato da questa terrena dimensione, tutto questo sarà solo spazio vuoto.
Si potrebbe aprire la disamina se esiste qualcosa dopo la vita. Per lo meno, vita intesa a come la intendiamo noi: esattamente la vita terrena e materiale. Quella nella quale inconsapevolmente iniziamo a vivere come atto d’amore (o di superficialità) da parte dei nostri genitori. Ma ne varrebbe la pena di perdersi tra i meandri delle ipotesi come già sviluppato da filosofi, teorici di ogni razza e religione e tutti coloro che hanno cercato di porsi delle domande?
Sarebbe perdere tempo. Sarebbe speculare su teorie già esaminate e che sono senza riprova materiale. Resterebbe solo un improbo esercizio senza nessun costrutto.
Tempus fugit!
IL BAR DEGLI ARTISTI
In via del Vantaggio a Roma, una piccola traversa che unisce via del Corso a via di Ripetta, si trovava un piccolo bar che tutti chiamavano ‘degli artisti’. Il vicino liceo Artistico e l’abbinata Accademia di Belle Arti ubicate al ferro di cavallo (così era definito lo slargo dove le due scuole stavano una di fronte all’altra), motivavano certamente quel nome , essendo il bar ritrovo di giovani studenti che si dedicavano alla pittura e allo studio della storia dell’arte. Il bar era composto da una sala principale dov’era situato il bancone vero e proprio ed alcuni tavolini per gli avventori più una seconda sala interna sempre riempita di tavolini ed accompagnata da un juke box ed un flipper; due diavolerie fatte per vedersi mangiati gli ultimi spiccioli raccolti in faticose collette per strada dove non era semplice chiedere ai passanti ‘che ha 50 lire?’.
Conobbi per caso il bar e non ricordo bene (sono passati 40 anni) chi mi ci portò la prima volta. Ma ricordo esattamente che divenne casa mia. Passavo intere giornate, dopo aver fatto sega a scuola la mattina e ritornandoci il pomeriggio. Ero in compagnia di compagni che, come me, stavano alle prese con una pubertà ribelle dove tutto o niente si equivalevano. Tra caffè e birre era facile perdersi rollando spinelli di pakistano nero che aiutava le tante discussioni dove si parlava di politica e di senso della vita e dove si smarriva qualsiasi senso pratico. Nella immancabile borsa di tolfa o dentro al zaino militare, tra fiammiferi e Gitanes senza filtro, non era raro trovare una molotov pronta per essere lanciata contro qualche sede del MSI o una chiave inglese marca Beta, calibro 36. Ma c’era anche la tessera dell’intera rete ATAC per viaggiare su tutti i bus pubblici della capitale, e la carta di identità per essere facilmente schedato.
Quel bar era magico. Il discreto barista che ne era anche il proprietario, non invadeva la nostra oasi di pace e dalla sala quasi nascosta, potevamo vedere chi entrava e chi usciva per regolarci sul da farsi. Rollare, fumare oppure parlare di azioni da intraprendere. In realtà, a parte un paio di compagni, non avevo molta confidenza con gli studenti dell’artistico che, paradossalmente, neppure frequentavano troppo spesso il locale, preferendo un bar proprio dirimpetto alla loro scuola. Quasi inspiegabilmente quel ritrovo era base di molti compagni stranieri che lo avevano deputato un punto di incontro per i loro affari, tra una bevuta di birra ed una pizzetta mangiata tanto per chiudere lo stomaco. Inutile descrivere l’ambiente fumoso dove eravamo immersi e le musiche che uscivano dal juke box e che andavano dai Temptation (papa was a rolling stone) alle Orme (gioco di bimba) passando per una sconosciuta Mia Martini (minuetto) fino a giungere a David Bowie (starman) ma non saltando i Deep Purple (Lazy) e via dicendo. Per tre anni abbondanti il bar degli artisti rimase fedele a se stesso per poi cambiare repentinamente e non solo nel mobilio oramai arrivato al capolinea ma nella sua filosofia. Ma se ci penso neppure tanto, mi rendo conto che eravamo cambiati noi e le nostre storie. L’ingenuità ed il candore, la passione e la tipica arroganza dei 15 anni se ne era andata via, fuggita piano piano nella notte di una giovinezza che stava giungendo ad una maturità fatta di maggior esperienza e praticità. Le discussioni eterne sul libro tibetano dei morti, su Bresci e sull’ultimo pezzo di libanese rosso, avevano lasciato il posto a qualcosa di differente. Adesso si che c’era da correre, e sul serio rispetto a prima dove tutto era caleidoscopizzato in un mix emozionale che era onirico e lontano dalla vita, pur vivendola ogni giorno sulla propria pelle. Adesso si, che si stava in prima linea…
In via del Vantaggio a Roma, una piccola traversa che unisce via del Corso a via di Ripetta, si trovava un piccolo bar che tutti chiamavano ‘degli artisti’. Il vicino liceo Artistico e l’abbinata Accademia di Belle Arti ubicate al ferro di cavallo (così era definito lo slargo dove le due scuole stavano una di fronte all’altra), motivavano certamente quel nome , essendo il bar ritrovo di giovani studenti che si dedicavano alla pittura e allo studio della storia dell’arte. Il bar era composto da una sala principale dov’era situato il bancone vero e proprio ed alcuni tavolini per gli avventori più una seconda sala interna sempre riempita di tavolini ed accompagnata da un juke box ed un flipper; due diavolerie fatte per vedersi mangiati gli ultimi spiccioli raccolti in faticose collette per strada dove non era semplice chiedere ai passanti ‘che ha 50 lire?’.
Conobbi per caso il bar e non ricordo bene (sono passati 40 anni) chi mi ci portò la prima volta. Ma ricordo esattamente che divenne casa mia. Passavo intere giornate, dopo aver fatto sega a scuola la mattina e ritornandoci il pomeriggio. Ero in compagnia di compagni che, come me, stavano alle prese con una pubertà ribelle dove tutto o niente si equivalevano. Tra caffè e birre era facile perdersi rollando spinelli di pakistano nero che aiutava le tante discussioni dove si parlava di politica e di senso della vita e dove si smarriva qualsiasi senso pratico. Nella immancabile borsa di tolfa o dentro al zaino militare, tra fiammiferi e Gitanes senza filtro, non era raro trovare una molotov pronta per essere lanciata contro qualche sede del MSI o una chiave inglese marca Beta, calibro 36. Ma c’era anche la tessera dell’intera rete ATAC per viaggiare su tutti i bus pubblici della capitale, e la carta di identità per essere facilmente schedato.
Quel bar era magico. Il discreto barista che ne era anche il proprietario, non invadeva la nostra oasi di pace e dalla sala quasi nascosta, potevamo vedere chi entrava e chi usciva per regolarci sul da farsi. Rollare, fumare oppure parlare di azioni da intraprendere. In realtà, a parte un paio di compagni, non avevo molta confidenza con gli studenti dell’artistico che, paradossalmente, neppure frequentavano troppo spesso il locale, preferendo un bar proprio dirimpetto alla loro scuola. Quasi inspiegabilmente quel ritrovo era base di molti compagni stranieri che lo avevano deputato un punto di incontro per i loro affari, tra una bevuta di birra ed una pizzetta mangiata tanto per chiudere lo stomaco. Inutile descrivere l’ambiente fumoso dove eravamo immersi e le musiche che uscivano dal juke box e che andavano dai Temptation (papa was a rolling stone) alle Orme (gioco di bimba) passando per una sconosciuta Mia Martini (minuetto) fino a giungere a David Bowie (starman) ma non saltando i Deep Purple (Lazy) e via dicendo. Per tre anni abbondanti il bar degli artisti rimase fedele a se stesso per poi cambiare repentinamente e non solo nel mobilio oramai arrivato al capolinea ma nella sua filosofia. Ma se ci penso neppure tanto, mi rendo conto che eravamo cambiati noi e le nostre storie. L’ingenuità ed il candore, la passione e la tipica arroganza dei 15 anni se ne era andata via, fuggita piano piano nella notte di una giovinezza che stava giungendo ad una maturità fatta di maggior esperienza e praticità. Le discussioni eterne sul libro tibetano dei morti, su Bresci e sull’ultimo pezzo di libanese rosso, avevano lasciato il posto a qualcosa di differente. Adesso si che c’era da correre, e sul serio rispetto a prima dove tutto era caleidoscopizzato in un mix emozionale che era onirico e lontano dalla vita, pur vivendola ogni giorno sulla propria pelle. Adesso si, che si stava in prima linea…
La porta si aprì docilmente lasciandomi entrare nel variopinto negozio di Fulgenzi che per noi compagni dei primi anni settanta era quasi una istituzione. Veniva definito alternativo perché, anche se ubicato nella ricca Piazza di Spagna, vendeva profumi indiani, incensi, braccialetti, collanine ed oggetti strani importati da Londra, Parigi, New York.
Fulgenzi era un obbligato passaggio che si faceva volentieri nell’ora del cazzeggio, quando non c’erano manifestazioni o cortei e quando la militanza politica ti permetteva di bighellonare per il centro di Roma.
E tra il lusco ed il brusco –come si dice in dialetto romano- si faceva un salto anche da Molayem a via del Seminario a due passi dal Pantheon. Molayem era un commerciante iraniano che aveva iniziato ad importare a Roma oggetti dal suo paese. In quegli anni del benessere a portata di molte persone, fu facile attecchire con tappeti, pietre preziose, monili di argento antico ed anticato, oggetti di arredamento, incensi, profumi, camice e caftani che davano tanto il tocco esotico ricercato da molti. Il piccolo buco dove aveva iniziato era stato chiuso per trasferirsi nel grande locale dietro a Piazza di Pietra, in quella via del Seminario che tagliava come una lama di coltello antichi palazzi umbertini di una Roma che amava sorseggiare il suo espresso da Tazza d’Oro oppure a Sant’Eustacchio.
Ero abituato a perdermi in quel pseudo bazar davvero orientale, lasciandomi stordire da incenso al patchouli o al sandalo. Ed era lo stesso odore che sentivo ora da Fulgenzi.
Iniziai ad aggirarmi a curiosare fino a trovare quello che cercavo. L’essenza di patchouli che avevo finito e che ero abituato a mettermi un po’ sul collo e che aveva impregnato tutti i miei indumenti. La piccola boccetta di vetro scuro finì dal bancone delle essenze direttamente dentro la tasca del mio eskimo, con la velocità di un novello Silvan. Non avevo quei soldi che avrei dovuto pagare ed un piccolo esproprio proletario non avrebbe mandato in fallimento l’opulento Fulgenzi.
Guadagnai l’uscita con la calma di colui che ha finito di cazzeggiare ed essendo solo metà mattina, scelsi di fare un salto al bar degli artisti di via del Vantaggio.
Avevo deciso di fare sega a scuola ma come sempre, alle sette e mezza ero di fronte al Bernini, l’ITIS dove ero iscritto e che frequentavo a malavoglia. Un caffè al bar all’angolo con Carlo, Ghero, Gogo e Marisa dalla vertiginosa minigonna che metteva in mostra due belle gambe e che creava non poco imbarazzo al professore di religione. Il caffè era quasi d’obbligo prenderlo, mettendo qualche monetina dentro il juke box per ascoltare David Bowie e la sua Heroes, oppure Le Orme con Giochi di bimba, e fumando una MS rimediata chiedendola per strada.
Si, il fare colletta mi era famigliare. Le prime volte provai quell’atavica vergogna di chi pare elemosinare ma poi, con la tasca piena di 50 e 100 lire che mi permettevano di comprarmi sigarette e pizza al taglio, eliminai la pena morale badando solo al risultato. In fondo –mi dicevo- se mi danno i soldi, lo fanno scegliendo di darmeli e quindi non hanno problemi di sorta.
Era una giustificazione vuoto a perdere dei primi tempi. Poi, neppure ci facevo più caso e non mi domandavo nulla. Chiedevo solo.
Quella mattina, nessuno aveva scelto di non andare a scuola e dopo lo squillo della campanella delle otto che chiamava tutti dentro, rimasi solo seduto sulla panchina che c’era in quella specie di giardinetto oblungo prospiciente l’entrata.
Accesi un’altra sigaretta e rimasi ad osservare ciò che mi circondava. Essendo una strada laterale di viale Angelico non era molto trafficata soprattutto dopo l’orario di entrata della scuola. Le mura color mattone arancione erano piena di scritte che inneggiavano alla rivoluzione. Le A cerchiate si confondevano con varie falce&martello disegnate in ogni modo. A ridosso dell’entrata, si potevano vedere tazebao vergati con pennarelli di ogni colore che si alternavano a ciclostilati attaccati uno sull’altro. E per ognuno c’era una storia dietro.
Frequentare la succursale di un istituto tecnico nel nero quartiere Prati, non era una bella cosa per noi compagni che dovevamo confrontarci con quella realtà, vivendoci insieme. Il vicino liceo Mamiani dalla rossa tendenza, era certamente preso di mira più che noi ma i fasci non ci snobbavano e ogni tanto, venivano a visitarci. Erano i picchiatori delle sedi di via Ottaviano, o della Balduina. Ma qualche volta, scendevano quelli di Vigna Clara o di Monte Mario. Insomma, non ci potevamo lamentare.
Dal canto nostro, avevamo organizzato una specie di arsenale approfittando di alcuni recessi del cortile esterno dell’edificio, piazzando diverse spranghe, alcuni manici di piccone (i famosi stalin), sampietrini, bulloni e occultandole bene, anche qualche molotov pronte ad essere accese. Piccola santabarbara che ci venne spesso in aiuto in quegli anni che molti hanno definito di piombo. Altri hanno detto che furono formidabili. Per me, furono gli anni della mia giovinezza e formazione. Ovviamente inimitabili.
Ed ora con un pacchetto quasi nuovo di sigarette, mi trovavo a camminare infreddolito per il centro di Roma. I pugni in tasca. Il tascapane a tracolla e mille e più pensieri innestati dentro ad una testa che seguita a lavorare mentre guadagnavo via Condotti per arrivare al Corso che discendevo verso piazza del Popolo.
Sorpassai alla mia sinistra la sede del PSI fino a giungere alla traversa di via del Vantaggio. Odori di vecchie mura ammuffite. Cielo terso sopra una città per nulla tranquilla. Pensai che il sessantotto partorì topolini incazzati neri che non si accontentavano di occupare l’università dei baroni e che pretendevano il sei politico. C’era aria di sfida. C’era aria di sogni. Il mio di quel momento era quello di sedermi ad un tavolino della saletta interna di quel bar con un caffè davanti, ascoltando Steve Wonder o i Genesis mentre inspiravo un po’ di pakistano nero che avevo ancora in tasca insieme alle fide Rizla.
Mi azzardai a specchiarmi in una vetrina riempita di vuoto consumistico e rimasi qualche secondo a vedere l’immagine che mi veniva rimandata dalla parete a specchio. Un ragazzo vestito con jeans strappati e lisi, un maglione color rosso bordò, un eskimo verde marcio, una lunga sciarpa color grigio topo. I capelli lunghi scendevano ribelli fino alle spalle, incorniciando un volto pallido che aveva qualche timido accenno di barba e l’aria stanca di chi non sa aspettare.
Viaggia la mente nei ricordi miei, recuperando come foglie svolazzanti, emozioni che mi scivolano sulla pelle prima di trasformarsi in brividi che lasciano profonde rughe di tristezza. E in mezzo a nebbie acute e malinconiche, appare il viso di chi se n’è andato e non tornerà più…
Resta uno spicchio di luce pietosa che prima di emigrare verso nord, mi offre un secondo di conforto e lascia l’illusione di aver fermato il tempo. Cerco i miei occhi per orizzonti che vorrei aver vissuto o che rimpiango per averli già conosciuti, mentre le mie mani si fermano sul cuore stanco che sentono pulsare ancora, ed ancora, ed ancora.
Resta uno spicchio di luce pietosa che prima di emigrare verso nord, mi offre un secondo di conforto e lascia l’illusione di aver fermato il tempo. Cerco i miei occhi per orizzonti che vorrei aver vissuto o che rimpiango per averli già conosciuti, mentre le mie mani si fermano sul cuore stanco che sentono pulsare ancora, ed ancora, ed ancora.
Lo so che mi aggrappo come un rampicante che cerca la sua esistenza contro un muro sbrecciato ed umido, ma è quello che riesco a fare adesso mentre una melodia di un tango triste mi rapisce la mente e la trasporta al quartiere Palermo di Buenos Aires, tra misere case color stinto che hanno visto speranze e sogni tricolori morire di fronte alla povertà di un onesto e sfruttato lavoro da emigrante.
L’odore di una zuppa indefinibile esce da una finestra del primo piano mentre cerco di capire se sono felice o no e senza sapere che scuoto la testa mentre mi formulo questa domanda.
Poi lo scenario si trasforma lasciando tanghi e sensualità, appendersi da soli fuori dalla finestra e vagheggio su lidi sconosciuti dove tutto sembra essere un sogno.
Cazzo di trip triste.
A volte mi piaceva paragonarla ad una striscia d’asfalto da percorrere ancora.
Poi, neppure fosse il satori a Parigi di kerouakiana memoria, l’ho trasformata in una musica. A volte sgraziata, a volte dolce. In certi momenti impetuosa, altri lenta. A volte addirittura stonata…La vita.
Premo i tasti di un ipotetico piano scordato e pieno di polvere che ho trovato in una vecchia soffitta di una casa disabitata. Non so neppure se sto sognando o se è realtà, tanto sono confuso. Ma mi affanno sui tasti d’avorio ingiallito dal tempo, annaspando una melodia che non ricordo neppure tanto bene, retaggio di studi di musica fatti quando portavo i pantaloni corti ed i miei capelli avevano una bizzarra riga sulla destra da bravo bambino. Le ginocchia sbucciate ma pulite. Le unghie tagliate da una nonna premurosa. Profumo di saponetta Camay. Dietro di me, tanta gente venuta ad assistere ad un improbabile saggio musicale dove suonerò due volte semplici composizioni talmente elementari da apparire ridicole ma così violente da farmi battere forte il cuore per paura di non farle bene.
Rientro ora dal viaggio. I tasti sono solo nella mia mente. La musica non c’è più e forse non c’è mai stata. Non riesco a vedere nulla di quello che vorrei. E mi sale in mente una dolce nenia cilena, cantata da Mercedes Sosa che dice che ‘todo cambia’ e mi ci perdo dentro.
Un’altra volta, me ne vado via.
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