La porta si aprì docilmente lasciandomi entrare nel variopinto negozio di Fulgenzi che per noi compagni dei primi anni settanta era quasi una istituzione. Veniva definito alternativo perché, anche se ubicato nella ricca Piazza di Spagna, vendeva profumi indiani, incensi, braccialetti, collanine ed oggetti strani importati da Londra, Parigi, New York.
Fulgenzi era un obbligato passaggio che si faceva volentieri nell’ora del cazzeggio, quando non c’erano manifestazioni o cortei e quando la militanza politica ti permetteva di bighellonare per il centro di Roma.
E tra il lusco ed il brusco –come si dice in dialetto romano- si faceva un salto anche da Molayem a via del Seminario a due passi dal Pantheon. Molayem era un commerciante iraniano che aveva iniziato ad importare a Roma oggetti dal suo paese. In quegli anni del benessere a portata di molte persone, fu facile attecchire con tappeti, pietre preziose, monili di argento antico ed anticato, oggetti di arredamento, incensi, profumi, camice e caftani che davano tanto il tocco esotico ricercato da molti. Il piccolo buco dove aveva iniziato era stato chiuso per trasferirsi nel grande locale dietro a Piazza di Pietra, in quella via del Seminario che tagliava come una lama di coltello antichi palazzi umbertini di una Roma che amava sorseggiare il suo espresso da Tazza d’Oro oppure a Sant’Eustacchio.
Ero abituato a perdermi in quel pseudo bazar davvero orientale, lasciandomi stordire da incenso al patchouli o al sandalo. Ed era lo stesso odore che sentivo ora da Fulgenzi.
Iniziai ad aggirarmi a curiosare fino a trovare quello che cercavo. L’essenza di patchouli che avevo finito e che ero abituato a mettermi un po’ sul collo e che aveva impregnato tutti i miei indumenti. La piccola boccetta di vetro scuro finì dal bancone delle essenze direttamente dentro la tasca del mio eskimo, con la velocità di un novello Silvan. Non avevo quei soldi che avrei dovuto pagare ed un piccolo esproprio proletario non avrebbe mandato in fallimento l’opulento Fulgenzi.
Guadagnai l’uscita con la calma di colui che ha finito di cazzeggiare ed essendo solo metà mattina, scelsi di fare un salto al bar degli artisti di via del Vantaggio.
Avevo deciso di fare sega a scuola ma come sempre, alle sette e mezza ero di fronte al Bernini, l’ITIS dove ero iscritto e che frequentavo a malavoglia. Un caffè al bar all’angolo con Carlo, Ghero, Gogo e Marisa dalla vertiginosa minigonna che metteva in mostra due belle gambe e che creava non poco imbarazzo al professore di religione. Il caffè era quasi d’obbligo prenderlo, mettendo qualche monetina dentro il juke box per ascoltare David Bowie e la sua Heroes, oppure Le Orme con Giochi di bimba, e fumando una MS rimediata chiedendola per strada.
Si, il fare colletta mi era famigliare. Le prime volte provai quell’atavica vergogna di chi pare elemosinare ma poi, con la tasca piena di 50 e 100 lire che mi permettevano di comprarmi sigarette e pizza al taglio, eliminai la pena morale badando solo al risultato. In fondo –mi dicevo- se mi danno i soldi, lo fanno scegliendo di darmeli e quindi non hanno problemi di sorta.
Era una giustificazione vuoto a perdere dei primi tempi. Poi, neppure ci facevo più caso e non mi domandavo nulla. Chiedevo solo.
Quella mattina, nessuno aveva scelto di non andare a scuola e dopo lo squillo della campanella delle otto che chiamava tutti dentro, rimasi solo seduto sulla panchina che c’era in quella specie di giardinetto oblungo prospiciente l’entrata.
Accesi un’altra sigaretta e rimasi ad osservare ciò che mi circondava. Essendo una strada laterale di viale Angelico non era molto trafficata soprattutto dopo l’orario di entrata della scuola. Le mura color mattone arancione erano piena di scritte che inneggiavano alla rivoluzione. Le A cerchiate si confondevano con varie falce&martello disegnate in ogni modo. A ridosso dell’entrata, si potevano vedere tazebao vergati con pennarelli di ogni colore che si alternavano a ciclostilati attaccati uno sull’altro. E per ognuno c’era una storia dietro.
Frequentare la succursale di un istituto tecnico nel nero quartiere Prati, non era una bella cosa per noi compagni che dovevamo confrontarci con quella realtà, vivendoci insieme. Il vicino liceo Mamiani dalla rossa tendenza, era certamente preso di mira più che noi ma i fasci non ci snobbavano e ogni tanto, venivano a visitarci. Erano i picchiatori delle sedi di via Ottaviano, o della Balduina. Ma qualche volta, scendevano quelli di Vigna Clara o di Monte Mario. Insomma, non ci potevamo lamentare.
Dal canto nostro, avevamo organizzato una specie di arsenale approfittando di alcuni recessi del cortile esterno dell’edificio, piazzando diverse spranghe, alcuni manici di piccone (i famosi stalin), sampietrini, bulloni e occultandole bene, anche qualche molotov pronte ad essere accese. Piccola santabarbara che ci venne spesso in aiuto in quegli anni che molti hanno definito di piombo. Altri hanno detto che furono formidabili. Per me, furono gli anni della mia giovinezza e formazione. Ovviamente inimitabili.
Ed ora con un pacchetto quasi nuovo di sigarette, mi trovavo a camminare infreddolito per il centro di Roma. I pugni in tasca. Il tascapane a tracolla e mille e più pensieri innestati dentro ad una testa che seguita a lavorare mentre guadagnavo via Condotti per arrivare al Corso che discendevo verso piazza del Popolo.
Sorpassai alla mia sinistra la sede del PSI fino a giungere alla traversa di via del Vantaggio. Odori di vecchie mura ammuffite. Cielo terso sopra una città per nulla tranquilla. Pensai che il sessantotto partorì topolini incazzati neri che non si accontentavano di occupare l’università dei baroni e che pretendevano il sei politico. C’era aria di sfida. C’era aria di sogni. Il mio di quel momento era quello di sedermi ad un tavolino della saletta interna di quel bar con un caffè davanti, ascoltando Steve Wonder o i Genesis mentre inspiravo un po’ di pakistano nero che avevo ancora in tasca insieme alle fide Rizla.
Mi azzardai a specchiarmi in una vetrina riempita di vuoto consumistico e rimasi qualche secondo a vedere l’immagine che mi veniva rimandata dalla parete a specchio. Un ragazzo vestito con jeans strappati e lisi, un maglione color rosso bordò, un eskimo verde marcio, una lunga sciarpa color grigio topo. I capelli lunghi scendevano ribelli fino alle spalle, incorniciando un volto pallido che aveva qualche timido accenno di barba e l’aria stanca di chi non sa aspettare.

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