In via del Vantaggio a Roma, una piccola traversa che unisce via del Corso a via di Ripetta, si trovava un piccolo bar che tutti chiamavano ‘degli artisti’. Il vicino liceo Artistico e l’abbinata Accademia di Belle Arti ubicate al ferro di cavallo (così era definito lo slargo dove le due scuole stavano una di fronte all’altra), motivavano certamente quel nome , essendo il bar ritrovo di giovani studenti che si dedicavano alla pittura e allo studio della storia dell’arte. Il bar era composto da una sala principale dov’era situato il bancone vero e proprio ed alcuni tavolini per gli avventori più una seconda sala interna sempre riempita di tavolini ed accompagnata da un juke box ed un flipper; due diavolerie fatte per vedersi mangiati gli ultimi spiccioli raccolti in faticose collette per strada dove non era semplice chiedere ai passanti ‘che ha 50 lire?’.
Conobbi per caso il bar e non ricordo bene (sono passati 40 anni) chi mi ci portò la prima volta. Ma ricordo esattamente che divenne casa mia. Passavo intere giornate, dopo aver fatto sega a scuola la mattina e ritornandoci il pomeriggio. Ero in compagnia di compagni che, come me, stavano alle prese con una pubertà ribelle dove tutto o niente si equivalevano. Tra caffè e birre era facile perdersi rollando spinelli di pakistano nero che aiutava le tante discussioni dove si parlava di politica e di senso della vita e dove si smarriva qualsiasi senso pratico. Nella immancabile borsa di tolfa o dentro al zaino militare, tra fiammiferi e Gitanes senza filtro, non era raro trovare una molotov pronta per essere lanciata contro qualche sede del MSI o una chiave inglese marca Beta, calibro 36. Ma c’era anche la tessera dell’intera rete ATAC per viaggiare su tutti i bus pubblici della capitale, e la carta di identità per essere facilmente schedato.
Quel bar era magico. Il discreto barista che ne era anche il proprietario, non invadeva la nostra oasi di pace e dalla sala quasi nascosta, potevamo vedere chi entrava e chi usciva per regolarci sul da farsi. Rollare, fumare oppure parlare di azioni da intraprendere. In realtà, a parte un paio di compagni, non avevo molta confidenza con gli studenti dell’artistico che, paradossalmente, neppure frequentavano troppo spesso il locale, preferendo un bar proprio dirimpetto alla loro scuola. Quasi inspiegabilmente quel ritrovo era base di molti compagni stranieri che lo avevano deputato un punto di incontro per i loro affari, tra una bevuta di birra ed una pizzetta mangiata tanto per chiudere lo stomaco. Inutile descrivere l’ambiente fumoso dove eravamo immersi e le musiche che uscivano dal juke box e che andavano dai Temptation (papa was a rolling stone) alle Orme (gioco di bimba) passando per una sconosciuta Mia Martini (minuetto) fino a giungere a David Bowie (starman) ma non saltando i Deep Purple (Lazy) e via dicendo. Per tre anni abbondanti il bar degli artisti rimase fedele a se stesso per poi cambiare repentinamente e non solo nel mobilio oramai arrivato al capolinea ma nella sua filosofia. Ma se ci penso neppure tanto, mi rendo conto che eravamo cambiati noi e le nostre storie. L’ingenuità ed il candore, la passione e la tipica arroganza dei 15 anni se ne era andata via, fuggita piano piano nella notte di una giovinezza che stava giungendo ad una maturità fatta di maggior esperienza e praticità. Le discussioni eterne sul libro tibetano dei morti, su Bresci e sull’ultimo pezzo di libanese rosso, avevano lasciato il posto a qualcosa di differente. Adesso si che c’era da correre, e sul serio rispetto a prima dove tutto era caleidoscopizzato in un mix emozionale che era onirico e lontano dalla vita, pur vivendola ogni giorno sulla propria pelle. Adesso si, che si stava in prima linea…

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